“Vedano, ho avuto intenzione di portare in patria il dipinto di Leonardo senza alcuno scopo interessato”. Così comincia la dichiarazione del giovane imbianchino Vincenzo Peruggia, di chiare origini italiane, famoso per aver compiuto un furto unico nel suo genere: il furto della Gioconda.
La Monna Lisa (conosciuta al mondo come La Gioconda) è il quadro più famoso di Leonardo da Vinci, artista e scienziato di straordinario valore. Il quadro ritrae una donna dall’espressione assorta e un sorriso appena accennato, che nel tempo ha sempre suscitato un senso di mistero, tanto da divenire il quadro più famoso e ambito al mondo.
Ad accrescere la sua fama, proprio il furto perpetrato nel 1911, dal museo del Louvre di Parigi dove è tutt’ora custodito.
Proprio Vincenzo Peruggia aveva posto il quadro nella sua nuova teca qualche tempo prima, essendo un operaio al servizio del museo. E grazie a questo, sapeva bene dove mettere le mani, i turni delle guardie e le migliori strade da seguire per uscire dal museo indisturbato.
Dalla sua parte due fattori molto importanti: il quadro non è molto grande (una tavola di legno di 77×54 cm) e il custode ha il vizio di appisolarsi durante il lavoro. Proprio approfittando di un momento di distrazione del guardiano, entrò nel museo senza farsi vedere da nessuno, estrasse il quadro dalla teca, lo nascose dentro il cappotto e si allontanò dall’ingresso senza farsi notare. Tornato a casa nascose il dipinto sotto un tavolo, senza dire niente a nessuno.
Ma se fosse solo questo il suo piano si potrebbe pensare ad un uomo fortunato. Invece aveva pianificato tutto, anche il suo alibi. Infatti la sera prima era uscito a fare bisboccia con degli amici, fingendo di ubriacarsi e facendosi accompagnare a casa. La mattina invece uscì presto senza farsi vedere dal cugino che viveva con lui o dalla portinaia del palazzo. Allo stesso modo, dopo il furto stesse attento a non farsi vedere, si coricò nel letto e aspettò di essere chiamato dal cugino. Fingendo di essere nervoso perché in ritardo al lavoro, si fece notare dalla portinaia e altri vicini, e scappò al museo dove apprese la tragica notizia.
“Chiamatemi solo se prende fuoco il museo o rubano la Gioconda”. Aveva detto il direttore del Louvre, Theophile Homolle, prima di partire per una vacanza. Scherzo del destino volle che proprio il giorno dopo la Gioconda sparisse.
La sparizione del quadro suscitò ben più scalpore di quanto si pensi. Infatti era diventato per la Francia un simbolo e del furto fu accusata da Germania, con la quale c’erano delle dispute su alcune colonie. Si rischiò un contrasto diplomatico forte, ma poi le accuse furono spostare su un artista futurista, Guillaume Apollinaire. Questi aveva affermato che avrebbe distrutto tutte le opere d’arte del passato per dare spazio a quelle moderne, e quindi fu un ottimo capro espiatorio, specialmente quando il suo amante tradito, Honoré Géri Pieret, rivelò che si occupava di ricettazione di statuette antiche.
In questo scandalo fu coinvolto anche un amico di Apollinaire, il pittore Pablo Picasso, mal visto in Francia all’epoca per il quadro cubista “Les Demoiselles d’Avignon”. Picasso disconobbe Apollinaire e ne uscì pulito, coniando una sua famosa battuta: “Amici, vado al Louvre. Vi serve qualcosa?”.
Il quadro intanto rimase sotto il tavolo dell’imbianchino Peruggia, che dopo qualche tempo tornò in Italia, a Luino, e appese il quadro in cucina. Ma il suo volere non era quello di tenere la Gioconda per se, ma restituirla all’Italia a cui, secondo lui era stata rubata da Napoleone. Non sapeva che invece non faceva parte dei quadri rubati dall’imperatore francese, ma che proprio Leonardo l’aveva venduta per 4000 scudi d’oro al suo protettore e re di Francia, Francesco I nel, 1517. Quindi il quadro è di chiara proprietà francese
Dopo 28 mesi dal furto, Peruggia cercò di mettersi in contatto con un antiquario, Alfredo Geri, per restituire all’Italia quel capolavoro. Geri, insieme al direttore del Museo degli Uffizi Giovanni Poggi, lo trasse in inganno, chiamando le autorità che lo arrestarono. Durante il processo allontanò le accuse di infermità mentale e dichiarò più volte di aver rubato il quadro solo per patriottismo, avvalorando il fatto che non aveva provato a venderlo. Ricevette comunque una condanna a un anno e quindici giorni, che poi fu scontata a sette mesi e quattro giorni, nel carcere delle Murate a Firenze. Uscito dal carcere si sentì un uomo finito: senza soldi e senza lavoro, e umiliato dallo Stato che pensava di servire.
Invece riscontrò nella popolazione italiana un grande consenso e fu oggetto di interviste e attenzioni dei media, tanto più che un gruppo di studenti toscani gli consegnò una colletta di 4500 lire come ringraziamento. Grazie al furto infatti, la Gioconda fu oggetto di un tour tra vari musei italiani, prima di essere restituita al Louvre.
Questo clamoroso furto non ha fatto altro che accrescere il mistero e la fama del quadro, già di per sé, particolarmente enigmatico.
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